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Dino Campana: i suoi «Canti Orfici» sono un capolavoro centenario

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Cento anni fa l’Europa si concedeva infervorata agli effluvi sanguigni della Prima Guerra Mondiale. L’Italia, dopo aver ambiguamente tergiversato per un anno, si risolse in favore di un intervento a fianco dell’Intesa. Chissà come la prese Dino Campana, che proprio nell’estate del ’14 (e dopo mille peripezie editoriali) era finalmente riuscito a pubblicare per la tipografia Ravagli di Marradi i suoi Canti Orfici, sottotitolati «Die Tragodie des letzen Germanen in Italien» con dedica «A Gugliemo II imperatore dei germani».

Più che una scelta politica, un atto eccentrico, sicuramente influenzato dal fascino che su di lui esercitava la cultura tedesca di inizio ‘900. E, più di tutti, fu influente il filosofo prediletto Nietzsche. Sarà che fra pazzi ci si capisce al volo, io credo comunque che Dino Campana sia l’autore italiano che meglio abbia compreso il nocciolo del pensiero nietzschiano. Il poeta marradese, infatti, è troppo spesso descritto come un folle invasato da spirito creativo, un visionario: invece, come disse giustamente Contini, egli più che un visionario fu un “visivo”, intellettuale consapevolissimo, conoscitore della filosofia, e non certo un improvvisatore.

La parola di Dino Campana non è mai istintuale in sé, essa è piuttosto mimesi dell’istinto, descrizione di esperienze reali. Io farei molta attenzione a catalogare l’autore dei Canti Orfici come “simbolista” tout court: più che di simbolismo io parlerei di mitologismo. Le allegorie, i rimandi presenti in gran quantità nei Canti Orfici, appaiono come parabole, sulla scorta appunto di Zarathustra, o come miti fondativi di un vero e proprio Oltreuomo, che agisce nella realtà e non in un mondo parallelo e nelle sensazioni, come, invece, è imputabile agli autori francesi di fine ‘800. Il paradiso (i Canti sono un percorso dantesco) cui giunge Dino Campana non è artificiale, baudelairiano, bensì è trionfo dell’attimo vitale supremo, che non è salvezza ma è comunque consapevolezza. I toni ora violenti ora più sfumati, i simboli che costellano la scrittura campaniana sono figli della temperie espressionista, somigliano più alle armonie deformate di Berg che a quelle acquerellate di Debussy. Credo, insomma, che il capolavoro del “poeta folle” possa essere visto come il poema dell’Oltreuomo nel mondo, emergente dalle rovine del ricordo. Un’iniziazione che parte dalla scheletrica e caotica Faenza, passa per il pellegrinaggio contemplativo, assorto, di La Verna, e giunge alla “paradisiaca” Genova dai colori pastello, dove tutto fa presagire alla realizzazione di una volontà di potenza che non è però l’esaltazione sguaiata e un po’ guascona di D’Annunzio, è anzi macchiata da un indicibile tormento interiore: «la forza/Dorme, dorme che culla la tristezza/Inconscia delle cose che saranno». A confermare questa lettura è secondo me la prosa Pampa, genesi dell’uomo nuovo. «Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle profondità del mio essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità attraverso i secoli». Il protagonista, in una sorta di elevazione cosmica, si fonda su sé stesso giungendo ad un grado superiore. Evidente poi il riferimento al celeberrimo aforisma 125 della Gaia Scienza nel finale:

E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere[…]. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.

Dio è morto, rimane Dioniso, ma l’abbandono alla divinità della disarmonia non è, come già detto, risolutivo né redentore. Eloquente a tal proposito la conclusione della bellissima Giornata di un nevrastenico: «O Satana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivii, o tu che dall’ombra mostri l’infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà della mia lunga miseria!».

Ma limitare i Canti Orfici ad appendice letteraria delle teorie nietzschiane sarebbe un torto pari a quello di considerarli, romanticamente, come il frutto di un’ispirazione irrazionale ed estemporanea d’un pazzo. All’interno dei Canti Orfici convivono anime e tematiche diverse, tutte alla base di differenti spunti di lettura. A partire dal titolo, che rimanda al poeta tracio “scerpato”, cui ci si riferisce anche nell’ultima pagina dell’opera, con quella citazione dall’OdeXXXIV di Walt Whitman: «They were all torn/And cover’d with/The boy’s/Blood». Ma “Orfeo” potrebbe essere anche il nome di un caffè presente allora nella piazza di Faenza, come ipotizzato dal prof. Stefano Drei.

Caffè, bordelli, cinema all’aperto e portici: la città manfreda accoglie un Dino Campana dallo sguardo allucinato, che mescola suggestioni artistiche a reminescenze personali, cui i «piaceri sterili» paiono premonizioni mortifere. I sette Notturni in versi che precedono LaVerna sono poesie difficili, ambigue, che di solito riscuotono più critiche che elogi. In essi il poeta è agitato (in maniera direi febbrile, specie in La Chimera) da un anelito erotico irrealizzabile, che diventa via via anelito di morte. Il metro è ora spezzato, anarchico, sulla scia delle recenti esperienze futuriste, ora produce un ritmo scandito, ossessivo (come in La petite promenade du poète). Terribili filastrocche dell’inquietudine: «Trovo l’erba: mi ci stendo/A conciarmi come un cane:/Da lontano un ubriaco/Canta amore alle persiane».

Campana è sì il poeta turbato, provocatore, ma anche il cantore di una nuova umanità: egli è per questo un emarginato, un girovago notturno. La Faenza descritta in La Notte è una città sotterranea, una sorta di Gerico nella memoria del poeta. Il verbo «Ricordo» apre l’intera narrazione, e il fumo della rimembranza si propaga per tutti i Canti, regalando ritratti fulminanti (l’ex compagno di liceo «ora di già in belle lettere guercio professor purulento», i «vecchi dalle forme oblique ossute e mute» a Faenza, Manuelita Etchegarray, con «la cipria sparsa come neve sul […] viso consunto da un fuoco interno»), e colorando le pagine con una tavolozza ancestrale e misteriosa. «Il panorama scheletrico del mondo», immagine ricorrente in questa parte iniziale dei Canti Orfici, è icona di un paesaggio scarnificato, remoto. «Rossa di mura e turrita», Faenza è un avamposto «barbaro» abbandonato nella modernità. Nella descrizione iniziale, i primi esseri umani che compaiono sono «gli zingari», gli «adolescenti» e «un vecchio», e dunque i viaggiatori per eccellenza, avvolti in un’aura atavica, la forza michelangiolesca della gioventù e la sacrale fissità della vecchiaia: archetipi di umanità nella città ctonia, a sua volta archetipo quasi leggendario.

Campana in gita con amici faentini, il secondo da destra

Come già detto, se Faenza è «senza filosofia», un inferno dionisiaco, la salita a La Verna può essere vista come un’ascesa purgatoriale, che però non guarisce. La fresca aria montana non forgia l’uomo nuovo, e Dino comincia così un viaggio più ampio. In Viaggio a Montevideo ci si presenta un’altra città dai tratti mitici, accompagnata dalle ormai ricorrenti figure femminili. E’ importante notare come la donna di Dino Campana sia sostanzialmente la manifestazione materiale di un fortissimo impulso psichico: essa è più che altro una valvola di sfogo. Le numerose donne che costellano l’opera del poeta di Marradi stanno fra realtà e fantasia: l’ancella, la Chimera, Ofelia, Francesca B., Manuelita sono realmente esistite, ma nella memoria del poeta possono essere confuse l’una con l’altra (anche se forse Manuelita ha un maggior grado di “indipendenza”), tutte espressioni di uno stesso desiderio che è un vitalismo angosciato, denso di fantasmi. E i fantasmi, le dolorose ossessioni, sono un’altra peculiarità dei Canti, forse le più suggestive, quelle che maggiormente confermano la convinzione di trovarsi di fronte a un vero “pazzo”. Si veda ad esempio Sogno di prigione con lo stupendo incipit: «Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune, delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca».

La reiterazione è l’espediente tipico usato da Campana per ritmare la propria prosa, conferendole spesso una tetra musica da nenia. Frequentissima pure la specificazione dei colori: il poeta ha davvero visto ciò (col suo occhio, naturalmente), e lo testimonia anche specificando i particolari cromatici. Ancora, sono impressionanti La giornata di un nevrastenico (Bologna), quasi un calvario attraverso il nulla della nebbia dicembrina, e Il Russo, affresco di un manicomio come quelli in cui l’autore veniva spesso rinchiuso: «Ora io lo vedevo chiudersi gli orecchi per non udire il rombo come di torrente sassoso del continuo strisciare dei passi».

Nel suo girovagare ansioso, Campana si ferma e conclude la propria opera a Genova: nella tenuità del «Crepuscolo mediterraneo», il mare è un enigma meraviglioso per quell’uomo nato fra le montagne tosco-romagnole di Marradi, dove anche in estate l’aria è più fresca che altrove. Ma «infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena» della città ligure: dopo essere approdato ad un porto assolato, verde, luminoso, Dino si ritrova con la solita prostituta, la «Siciliana proterva opulenta matrona» e alza gli occhi al cielo.

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Come Dante alla fine di ogni cantica, ma la sua via resta smarrita. Torna l’inquietudine radicale, indicibile, come quando si chiedeva in La Speranza: «Chi le taciturne porte/Guarda che la Notte/Ha aperte sull’infinito?». Erano tutti laceri e coperti col sangue del ragazzo. Ovvero del poeta, l’unico possibile uomo nuovo, l’unica possibile vittima.

Michele Donati

Immagine di copertina: commons.wikimedia.org

 


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