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“Fino all’ultimo respiro”: Jean-Luc Godard e la Nouvelle Vague

6 minuti di lettura

«Di tutti i film di Godard quello che preferisco è A bout de souffle, per l’infelicità che vi è in esso. Infelicità morale e infelicità fisica. Una profonda esperienza dell’infelicità. È raro che un film sia, di primo acchito, un grido. Fu il caso di quel film». François Truffaut pronunciava tali parole con cognizione di causa, perché, per la prima volta, una pellicola dell’amico Jean-Luc Godard vedeva la luce grazie a una sua idea. L’amicizia, si sa, è un sentimento bastardo, un’arma a doppio taglio che ti ferisce alla schiena scorticando la parte più dura adibita a corazza. François e Jean-Luc si sono amati e poi odiati, ammirati e denigrati, tra donne passate di fretta e altre destinate a mutare i rapporti (Anna Karina), facendo a pezzi un rapporto proficuo che i frammenti ha cercato di ricomporre senza mai, davvero, riuscirci sul serio.

Il 1959 è però un anno di grazia, la tempesta è lontana e a Cannes vengono proiettati i fantastici 400 colpi truffautiani. La cesura arbitraria che vuol far coincidere l’inizio della Nouvelle Vague con tale evento ha certamente valenza storiografica ma è al contempo calzante data l’assoluta novità della pellicola su Antoine Doinel. I critici «parrucconi e tromboni della moraloneria» (l’espressione è di Carlo Emilio Gadda) storcono il naso davanti alla destabilizzazione di tutti canoni classici, al decadrage ostentato e all’assoluta impronta provocatoria. Truffaut ha un’idea, che un giornale di cronaca dell’epoca gli fornisce su un piatto d’argento: un uomo, Michel Portail, dopo un’estate passata tra l’alta società della Costa Azzurra insieme alla bella fidanzata americana, uccide con un colpo di pistola un poliziotto in motocicletta per raggiungere più in fretta possibile la madre morente a Brittany. Bello e dannato Portail verrà poi consegnato alle forze dell’ordine dalla stessa ragazza, forse impaurita, probabilmente furbetta. «È pane per Jean-Luc», deve aver pensato François che, mescolando elementi del noir americano alla Scarface con un fatto realmente accaduto, propone il canovaccio di un cocktail esclusivo pronto ad esplodere.

Godard in realtà, con il solito cipiglio saccente, non apprezza particolarmente l’idea dell’amico ma, memore del successo de I 400 colpi, si lascia convincere. Per A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) mette insieme due grandi attori, Jean Paul Belmondo e Jean Seberg, fantastica con la sua aria sbarazzina da eterna adolescente. La storia è quella di Michel Portail, innamorato di Patricia che lo tradirà consegnandolo alla gendarmerie (e alla morte). Indimenticabile la scena sugli Champs-Elysées in cui Belmondo, alla domanda «Lei non ha nulla contro la gioventù?» risponde «Sì, preferisco i vecchi» (la Nouvelle Vague arrive, del resto) e la lunga chiacchierata a letto con Patricia, quando lei scopre il passaporto falso del giovane, parla di letteratura e dolore e bacia un Michel che, stanco, «vuol solo morire».

Il Belmondo di Godard è un gangster che vive di furti, donne e piccole fortune, si specchia nel poster di Humphrey Bogart e con gestualità meccanica si passa un dito intorno alle labbra. Gioca con la pistola nascosta nel cruscotto della macchina, fuma di continuo e porta occhiali scuri per confondersi tra la gente. L’omaggio al noir americano appare scontato, eppure Godard non è tipo da semplici tributi. Il montaggio si fa caotico, disarticolato, la colonna sonora presenta tagli improvvisi; il nuovo c’è, e si vede. Il regista sa che la finzione filmica esiste e con potenza inaudita lo urla in faccia allo spettatore, che forse per la prima volta conosce il jump-cut, la sola illuminazione naturale (che nella scena dei due nella stanza creò non pochi problemi) e l’utilizzo del piano-sequenza. Eppure A bout de souffle è Parigi in tutta la sua essenza, c’è più vita reale in questa pellicola che in mille documentari. I viali, i caffè, i cinema, sono quelli frequentati da Godard, Truffaut, Claude Chabrol. Michel guarda in camera, Patricia nell’ultima scena fissa lo spettatore, il cinema si fa vita e la vita si fa arte.

Il finale voluto dall’orgoglioso Jean-Luc è diverso da quello prospettato nella sceneggiatura originale (con Michel che riesce a scappare su un’auto probabilmente rubata): qui Belmondo muore, colpito alla schiena, dopo aver arrancato in maniera sbilenca fino a un incrocio di strade. Un altro taglio improvviso e la camera lo fissa, e lui, forse rivolto a Patricia, forse alla vita, mormora: «È veramente schifosa». La Seberg lo omaggia, ripetendo il suo gesto, poi se ne va, perché tutto passa. Il dubbio originario rimane, il grande cinema anche.

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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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