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Dal film "Con gli occhi chiusi", Francesca Archibugi, 1994. lacooltura.com

La giovinezza è una malattia?

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Dal film "Con gli occhi chiusi", Francesca Archibugi, 1994. lacooltura.com
Dal film “Con gli occhi chiusi”, Francesca Archibugi, 1994.
lacooltura.com

«Talvolta non leggeva più, perché gli pareva di vedere di là dalle pagine che diventavano come trasparenti e sfondate»

È difficile non affezionarsi ai «vattelappesca», snocciolati nel mezzo di una riflessione sul baseball, sull’amore o sulle anatre, con cui J.D. Salinger costruisce lo scanzonato impasto linguistico de Il giovane Holden. Nel Novecento l’adolescenza catalizza buona parte del materiale letterario. Questo tema, un precursore della modernità lo ha tradotto nelle botte a un caruso dai capelli rossi, un altro nelle ingenuità di un bambino strapazzato qua e là dalla malavita londinese, Fedor Dostoevskij ha riplasmato la storia dei concetti di Delitto e Castigo facendoli passare dal cervello di un ventitreenne; ogni scrittore della crisi, cioè, non può non essere attirato dall’infanzia e dalla gioventù. E in Italia c’è un Raskolnikov, un Holden cupo; è un Malpelo per elezione e un Oliver Twist angosciato. Pietro Rosi, il protagonista del romanzo Con gli occhi chiusi (1919).

A Federigo Tozzi va l’appoggio di Luigi Pirandello e del critico Giuseppe Antonio Borgese, che lo introducono nel mondo intellettuale di Roma, nella capitale a cavallo della Grande Guerra. È il momento in cui il genere romanzo è analizzato al vetrino: dov’è possibile innestarvi nuovi semi e far germogliare la letteratura del nuovo secolo? Tozzi, figlio delle campagne rossastre e verdi oro sparse lungo la provincia di Siena, autodidatta capace di aggrapparsi solo alla propria instabilità interiore perché tutto dentro di lui è disordinato, la realtà è senza spiegazioni; Tozzi punta la penna sull’animo umano e calca l’inchiostro: qui la letteratura deve rilucere di modernità, incuneandosi tra le cose interiori, nei pensieri e nelle azioni inconcludenti del soggetto. Ma prima: di cosa parla Con gli occhi chiusi?

Pietro, figlio di Anna e di Domenico Rosi, proprietari della trattoria cittadina Il pesce azzurro e del podere in campagna di Poggio a’Meli, si innamora di Ghìsola, seducente nipote di due assalariati in casa Rosi, e, travagliato dall’amore impossibile, giunge così alla maturata consapevolezza: non sa interpretare la trama della vita, punto. Allo stesso modo, per parlare di Con gli occhi chiusi è inutile descriverne la vicenda – nonostante essa tratti, effettivamente, del fallimento di una storia d’amore e del conflitto tra padre e figlio.

«Ai più interessa un omicidio o un suicidio; ma è ugualmente interessante, se non di più, anche l’intuizione e quindi il racconto di un qualsiasi misterioso atto nostro; come potrebbe esser quello, per esempio, di un uomo che a un certo punto della sua strada si sofferma per raccogliere un sasso che vede e poi prosegue la sua passeggiata. […]Io dichiaro d’ignorare le trame di qualsiasi romanzo; perché, a conoscerle, avrei perso tempo e basta. La mia soddisfazione è di poter trovare qualche pezzo dove sul serio lo scrittore sia riuscito a indicarmi una qualunque parvenza della nostra fuggitiva realtà»

– Estratto del saggio Come leggo io (composto da Tozzi nel ’19, come il romanzo)

La poetica, così chiamata, del «qualsiasi misterioso atto nostro» sembra portata a riva da Le onde di Virginia Woolf o dalle schizofrenie dell’Ulysses di James Joyce, eppure, che la scrittura debba restituire spezzoni di vita nascosta, lo afferma un autore provinciale – o per lo meno così pare, se confrontato ai nomi totem di Italo Svevo e Pirandello. Tuttavia, è un provincialismo smaccatamente europeo: imbevendosi della terra di Siena Pietro è capace, a livello inconscio, di combinare i neri più ciechi dell’angoscia, i blu scuri delle notti passate a stare «bene sul letto, con gli occhi chiusi», il rosso scarlatto che sente dentro al ventre «quando un altro lo chiamava compagno» e Pietro «si sarebbe fatto a pezzi per lui»; dalla terra di Siena, assolata per tutto l’«arruffìo» di strade, al bianco trasparente e pauroso del rapporto col padre. Tra cent’anni la critica letteraria potrebbe guardare ai personaggi di Con gli occhi chiusi come un manuale – senza cronache e senza nozioni – di storia umana delle generazioni novecentesche.

Un luogo del libro: Radda (ora Radda in Chianti)
Un luogo del libro: Radda (ora Radda in Chianti)

Insomma, la malattia di Pietro Rosi ricorda quella di Zeno Cosini (è l’inettitudine, sostantivo che pare appartenere solo al capitolo “Il novecento: modernismo” dei testi scolastici e che andrebbe rinvigorito). Ma lo stile tozziano ha carica esplosiva, rompe il legame col romanzo ottocentesco. La storia prosegue per blocchi, assecondando il ritmo psicologico dei personaggi: i fatti non hanno una gerarchia, perché la malattia di Pietro non gli permette di innescare un contatto con la realtà; la giovinezza scorre, pezzo dopo pezzo, senza possibilità di integrazione. È quel che intende il critico Giacomo Benedetti quando scrive che Tozzi «narra in quanto non sa spiegare».

I suoni e i modi di dire del vernacolare senese saltano tra le pagine (il glossarietto al termine cerca di raccoglierli in forma di lista), unici fili con cui l’autore costruisce una trama: è una rete non di eventi, ma di cose, di espressioni. Capita, per esempio, che a un personaggio ininfluente (Pino) sia dedicato tutto un blocco, e il lettore ne segue indirettamente i discorsi e i gesti, per poi vederlo cascare giù con l’ultimo paragrafo a riga unica: «Morì presto; e nessuno se ne accorse». Come muoiono presto, nella penna dello scrittore, le regole formali.

Le luci della mente sono intermittenti: Pietro allora vaga da solo nella sua stanza, passa da un progetto all’altro, fa e disfa i propri desideri, annaspa senza sapere per cosa si è tuffato. È malato fin dalla prima scena dove appare, quando la madre, risentita dalla scarsa fede cattolica del figlio, lo spoglia mentre lui, come sempre, è «con gli occhi che non stavano aperti, pieno di sogni». Sognare, però, non è una consolazione: Pietro, addormentatosi, si risveglia a mezzanotte per il canto di due usignoli tra gli alberi del podere. Non c’è spazio per uno svolgimento lineare, perciò la psicologia si raggomitola, così il giovane che è vittima del mondo esterno avverte gli impulsi che scalciano sotto le palpebre e ha paura, mentre sogna, della sua crudeltà, della sua cattiveria da malato.

«Allora li ascoltò ambedue a lungo, e non avrebbe voluto; e pensò che Ghìsola fosse fuori per prenderli. Ma si chiese perché le cose e le persone intorno a lui non gli potessero sembrare altro che un incubo oscillante e pesante.
Poi, nei sogni, sentiva la sua cattiveria; e credeva d’imprecare contro quel canto»

Andrea Piasentini

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Redazione

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