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«Facciamoci un selfie»: un viaggio tra identità e aspetto

Terzo Millennio e mondo social. L'immagine, intesa come aspetto, diventa l'unico mezzo possibile e fondamentale per dare un'identità alla propria persona. Che cosa distingue l'autoritratto artistico da un selfie? Analizziamo i due fenomeni.

16 minuti di lettura

Autoritratto fotografico s. m. [comp. di auto-1 e ritratto]. – Ritratto che un pittore o uno scultore (nel nostro caso un fotografo) fa di se stesso. Per estens., anche in funzione appositiva, descrizione in prosa o in versi del proprio aspetto fisico o anche delle proprie qualità morali.

Selfie (s. m. inv.) – Neologismo usato per identificare uno scatto fotografico su se stessi, realizzato con smartphone o webcam, per essere condiviso nei siti di relazioni sociali.

«Autoritratto fotografico» e «selfie» sono spesso, ed erroneamente, utilizzati come sinonimi, confusi e mescolati come se identificassero lo stesso oggetto. Un accostamento di termini che porta con sé il desiderio di auto-rappresentarsi e auto-ritrarsi, caratteristiche che già Leon Battista Alberti (1404-1472) aveva inserito nel suo trattato De pictura. Forse influenzato dalla curiosità medievale per gli specchi, Alberti era attratto dall’arte dell’autoritratto, tanto che era facile per lui individuare in Narciso, la figura dell’iniziatore del genere. Lo specchio da subito si carica di significato.

Nel tempo, attraverso lo specchio, l’autoritratto era diventato lo strumento prediletto dagli artisti, per raccontare la propria vita, i propri desideri, i propri segni indelebili sul volto.

Questa pratica, che in un primo momento sembrava ricoprire solo un ruolo di attestazione della nostra esistenza, è rimasta da sempre legata a una spinta verso ciò che vorremmo essere, sia fisicamente sia spiritualmente. Ma il risultato è spesso stato effimero e somigliante più a una scommessa che a una certezza.

Se analizziamo invece l’altro fenomeno, quello del «selfie», nato e cresciuto secoli dopo, possiamo ipotizzare che per essere spiegato debba esserne indagata l’origine nell’autoscatto fotografico, suo presunto antenato, che poco ha a che fare con il «selfie», se non il fatto di fare una fotografia a se stessi. Basta entrare nel merito della linguistica, analizzando la parola inglese «selfie», per capire come in italiano, non possa essere paragonata alla parola «autoritratto»; non è questo un «prestito di lusso», cioè un prestito per il quale esiste un corrispettivo italiano. Non è sinonimo perfetto neanche di «autoscatto» in quanto l’uso della temporizzazione non è contemplato. Non a caso, la «mania da selfie» è accelerata e si rende imprendibile, proprio in concomitanza con l’introduzione della telecamera frontale sugli smartphone.

Se vogliamo quindi indagare le origini di un fenomeno diventato oggi virale le possiamo individuare nell’autoritratto di Robert Cornelius (1809-1893), un pioniere della fotografia statunitense: si tratta del primo dagherrotipo, fissato a una lastra di rame, che dà il via alla rappresentazione fotografica di se stessi. Curiosamente, è anche una delle prime fotografie a ritrarre una persona umana.

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La tecnica più diffusa e più utile alla realizzazione, per garantire stabilità, consisteva nel posizionare la fotocamera su un supporto o un treppiedi di fronte a uno specchio, inquadrando attraverso il mirino posizionato sulla sommità dell’apparecchio, con tutte le difficoltà che uno scatto del genere comportava. L’avvento sul mercato delle fotocamere portatili, come la Kodak Brownie uscita nel 1900, e in seguito delle agilissime tascabili agevola il mondo del fotografo e porta alla diffusione capillare dell’autoritratto. Quest’ultimo si semplifica, i mezzi di produzione di moltiplicano, mentre lo specchio rimane, fedele e inesauribile, così come d’altra parte interviene l’«autoscatto» e il sistema del «telecomando», accorciando il margine di errore, e togliendo inutili ingombri.

Il 1908 invece è l’anno in cui avviene una svolta nella vita del celebre pittore Edvard Munch (1863-1944), più precisamente una svolta nella sua crisi interiore, cioè un vicolo cieco che lo porta a un lungo ricovero in una clinica danese. Qui l’artista compie una vera propria introspezione fotografica, ma non solo, di se stesso. Per lui la fotografia non è semplicemente qualcosa di interessante, bensì è lo strumento ideale per l’auto-osservazione, il modo di spiegare il proprio volto di disperazione. L’autore di grandi capolavori come Lurlo, si osserva e si scruta attraverso la sua Kodak e grazie ad essa cerca di spiegare il vuoto che da cui si sente costantemente attraversato. L’autoritratto gli permette di guardarsi dall’esterno, di cogliere l’espressione di un momento e di trasformarla in un oggetto osservabile.

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La fotografia lo accompagna silenziosa per tutti i suoi anni di reclusione. Qui la sua solitudine, l’ossessione per il vuoto, la sua espressione assente e carica di angoscia mutano come muta la pelle di un serpente: da condanna a scelta di vita. Una volta uscito e libero, cerca una nuova dimensione dove collocarsi, cerca un nuovo spazio tra i colori del suo studio. Per Munch la fotografia è in grado di «catturare l’anima» e per questo molti autoritratti fotografici vengono da lui usati per arrivare ad ideare quelli pittorici. Per lui l’immagine allo specchio come la vita non consente né distanza, né arresto.

Qualche anno più tardi, nella fredda e regale Russia, la curiosità nata dalla combinazione tra specchio e macchina fotografica spinge un’intraprendente adolescente a scattare una fotografia di se stessa da mandare ad un amico: stiamo parlando della granduchessa Anastasija Niolaevna. L’anno è il 1914 e la macchina fotografica è ancora un «aggeggio» troppo sensibile e difficile da manovrare. Una mano tremolante può rendere difficile la realizzazione di uno scatto semplice. Anastasija allega la fotografia alla lettera e la spedisce. Anastasija e il suo doppio.

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Il connubio macchina e specchio, nel tempo diventa simbolo, tale da diventare il punto di riferimento di alcuni fotografi che lo incontrano nel loro personale percorso artistico. È il caso di Vivian Maier (1926-2009), fotografa americana attiva nel pieno degli anni ‘50, i cui rullini sono rimasti quasi sconosciuti fino alla sua morte; un «destino alla Emily Dickinson» che oggi, grazie alla tenacia del giornalista americano John Maloof, è ritornato a vivere, riportando alla luce scatti inediti di quegli anni e un infinito repertorio di autoritratti in cui l’artista non guardava quasi mai direttamente l’obbiettivo.

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Autoritratti non datati, realizzati con pellicole in bianco e nero e a colori, autoritratti che vanno oltre l’intimo rapporto con la propria immagine. Scendono per le strade e amalgamandosi alla massa diventano autoritratti cittadini; il viso resta immobile mentre la città intorno scorre.

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Con Autoritratto un mese dopo essere stata picchiata, siamo sempre in America, nei radiosi e scontrosi anni ’80. L’autoritratto torna ad essere denuncia del proprio stato d’essere, della propria inconsistenza. Una sorta di «incorniciamento» del presente opprimente, di realtà difficili come quella di Nan Goldin (1953).

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Nan, fotografa contemporanea di grande successo, osserva il lato trasgressivo e nascosto della città da dietro la sua macchina e insieme indaga dentro se stessa; per lei la fotografia è un diario aperto al pubblico dove poter guardare e imparare, dove i ricordi privati diventano arte solo dopo essere stati esposti. Ritrae amici, conoscenti e molte volte se stessa: nelle numerose camere d’hotel dove si trova, su un treno in corsa, nel buio della notte o nella freschezza di una spiaggia.

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Siamo ancora, nella caotica e immensa New York, lì dove il percorso creativo di Francesca Woodman (1958-1981), giovane ventenne, intreccia la scoperta del suo corpo e dell’ambiente che la circonda, riuscendo a fonderli insieme trasgredendo i canoni fotografici dell’epoca. Francesca Woodman va oltre l’auto-rappresentazione: rappresenta l’identità personale e sessuale in risposta alle convenzioni sociali e culturali, spesso tramite strategie de-costruttive; caratteristica che forse incarna perfettamente le idee di immagine femminili nate con le prime surrealiste; eredità che riesce ad arrivare, potente e penetrante, nelle successive generazioni di artiste. La Woodman fotografa per soli 9 anni ma diventa figura emblematica dell’auto-rappresentazione.

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Schietta e senza filtri, provocatoria e modernissima, nel gennaio del 1981 pubblica la sua prima e unica collezione di fotografie, dal titolo Some Disordered Interior Geometries (Alcune disordinate geometrie interiori) e nello stesso mese dello stesso anno si suicida lanciandosi da un palazzo di New York. La sua morte porta le sue fotografie a diventare ancora più intime, complesse e avvincenti, ancora più cariche di domande, senza una presunta risposta. Nudi inquietanti, surreali e una sessualità tanto ansiosa quanto eterea.

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L’autoritratto di una Francesca Woodman che scompare, la figura senza volto, come inghiottita dalle pareti, o dalla sua stessa macchina fotografica. Il suo corpo, nascosto e mimetizzato, e l’ostentazione della creazione di un’immagine di sé, in cui, con il senno di poi, è facile leggervi un male di vivere. Sconosciuta in vita, l’artista si è consacrata nella morte.

L’avvento del Terzo Millennio, ancora una volta, porta con sé l’evoluzione della specie: munita di polpastrelli più agili, da battere su qualsiasi schermo LCD o retina; «evoluzione» che segue a ruota quella del mezzo e della sua diffusione di massa, fino all’avvento del fantomatico «selfie». Fino a diventare la parola più pronunciata e ridondante del passato 2013. Quando viene coniato, intorno al 2005, il «selfie» non immagina la fortuna che lo aspetta dietro l’angolo. Negli anni a seguire diventa evento, se non globale, almeno planetario. Si stacca dall’essenza intima dell’autoritratto, dal suo sguardo interiore e concreto, dal suo ascetico divenire e ridefinirsi. Viene studiato da medici, psicologi, sociologi, viene interrogata la sua presunta identità che viene a sua volta rivista più volte. Viene indagata la sua natura dilagante che ha coinvolto ormai ogni ceto sociale (dal presidente degli Stati Uniti al ragazzino di periferia) e latitudine, passando da un emisfero all’altro ed entrando in tutti i dizionari.

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Si può dunque parlare del «selfie» come di un autoritratto 2.0? Cosa distingue l’autoritratto artistico da un «selfie» sorridente con alle spalle un monumento?

La differenza sostanziale non sta nell’etimologia linguistica, bensì si carica di significato solo se si parla della dicotomia tra identità e aspetto. Cogliendo la propria immagine riflessa, l’artista compie una lenta indagine su di sé, giungendo con immenso sforzo a dire «io sono questo». Il «selfie» no: si allontana dall’arte come si allontana dal riflesso, non è nemmeno voglia di conservare una memoria: nel momento in cui ci si trova nell’ipotetica «situazione giusta», o nel momento in cui si crede di avere un aspetto tale da ottenere risposte positive, allora, solo allora, si può dire «faccio un selfie». Lo scopo non è un’indagine approfondita di sé, ma l’esatto opposto, vale a dire l’approvazione del grande pubblico, l’alto gradimento; o meglio, ottenere queste piccole soddisfazioni quotidiane che spesso sono solo sinonimo di quella grande vertigine che è il mondo di oggi. Più che un’auto-rappresentazione, somiglia più a una ricerca nella raffica di scatti. Una ricerca nata insoddisfatta, che cerca sfrenata una conferma della propria esistenza.

È come un cercare di creare un mito di se stessi, ma dotato di caratteristiche effimere e volatili. È come vivere in un eterno «dietro le quinte», dove acquista valore soprattutto ciò che non è ancora in scena. È persino risultato semplice far entrare il «selfie» nel tempio del ritratto, anche se ad allontanarsi dalla resa artistica di uno scatto fotografico di se stessi è proprio l’atto di condividere nei social network la propria esistenza.

Il mondo è diventato «social» e l’«immagine», intesa come «aspetto», in un «mondo social», diventa l’unico mezzo possibile (e fondamentale) per dare «identità» alla propria persona. Il Terzo Millennio è proprio questo: lo spirito voyeuristico che si accentua e il selfie ne diventa il simbolo. La sua inaudita produttività e l’ormai avvenuta emancipazione dal ruolo di parola chiave sorreggono l’esibizionismo di molti e appagano la curiosità degli altri di impossessarsi di immagini che tocchino la sfera privata di un individuo.

 

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Fausta Riva

Fausta Riva nasce in Brianza nel 1990.
Geografa di formazione(Geography L-6) poi specializzata in fotografia al cfp Bauer.
Oggi collabora con agenzie fotografiche e lavora come freelance nel mondo della comunicazione visiva.
Fausta Riva nasce sognatrice, esploratrice dell’ordinario. Ama le poesie, ama perdersi e lasciarsi ispirare.

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