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Critica della tradizione: Salvini e il crocifisso

Il crocifisso non va tolto nelle scuole. Così vuole Salvini, ma non come imposizione religiosa, bensì come conservazione di una tradizione millenaria. Siamo sicuri che abbia interpretato correttamente il senso del divenire storico?

6 minuti di lettura
Matteo_Salvini_-_Trento_2015

Con addosso la solita camicia azzurrina, seduto su una poltroncina d’un rosso intenso, Matteo Salvini, ospite da Open Space, ha dichiarato che il crocifisso non va tolto dalle aule delle scuole italiane. Ormai si sa, suona come un leitmotiv, pensi di essertelo scordato, invece ritorna. Una volta è per questo motivo, una volta per un altro, fatto sta che in Italia ciclicamente questo problema torna. Nei commenti oltre a un coro di approvazione – con il solito apparato antropologico formato da giovincelli nostalgici del Duce e anziani pronti a difendere le nostre radici a costo di indossare cotta di maglia e stringere scudo e spada – compaiono le altrettanto scontate critiche riguardanti la laicità dello Stato: le critiche, occorre ribadirlo, sono infondate. Durante il suo intervento, Salvini specifica che non si tratta affatto di una questione religiosa. Il fondamento di questa sua proposta è del tutto etico (dal greco, nel senso di costume, tradizione). Mantenere il crocifisso negli istituti pubblici non sarebbe un’imposizione religiosa, bensì una conservazione di una tradizione millenaria. Se questa può sembrare una parziale discolpa di Salvini, non lo è. Anzi.

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«C’è un quadro di Klee che s’intitola ‘Angelus Novus’. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

Scrive così Walter Benjamin nel suo Tesi sulla filosofia della storia. Pochi aforismi più avanti invece si legge – parafrasato – che ogni generazione porta con sé un compito messianico ma non riesce a portarlo a termine perché invece che pensare a un futuro più prospero per i nipoti, ha il chiodo fisso dei soprusi compiuti sui propri avi. Cosa significano questi due aforismi? Quello che si vuole spiegare è che la matrice del cambiamento non è il ritorno al passato, ma il suo superamento. Gli eroi vengono ammazzati e divorati, ciò che prima era oro, adesso è solo un mucchio di sabbia sul fondo del mare. Già Friedrich Nietzsche affermava che l’etica, il comportamento, i simboli consolidati, frutto non della natura, bensì dell’industria, della società, «non è altro che obbedienza», e arriva a dichiarare che «l’uomo libero è privo di etica, perché in tutto vuol dipendere da sé e non da una tradizione». L’etica è imposizione, è rinchiudere il singolo e la comunità in una condizione di immobilismo, senza che la loro volontà e i loro cambiamenti possano influenzare la vita politica e sociale.

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Per di più, la concezione cristiana del tempo afferma il contrario di quanto affermato da Salvini: abbiamo ampiamente parlato, in articoli precedenti, di una concezione ciclica e pessimistica del tempo nei Greci, la grande rivoluzione del Cristianesimo fu la linea; il tempo non era più un cerchio, bensì un vettore orientato verso un fine, quello del regno di Dio. Questa “rivoluzione” porta con sé un aspetto molto interessante, che interessa a noi: se nella concezione greca, dove ogni cosa è destinata a tornare, la novità viene vista come tirannica, come fuoriuscita dalle leggi naturali, nella concezione cristiana la novità è vista come passo in avanti verso il progetto divino.

Giotto,_Lower_Church_Assisi,_Crucifixion_01

La colpa di Salvini non è quindi quella di aver teso la mano alle fronde più cattoliche, che vorrebbero la fine della laicità in Italia, per il ritorno ai tempi d’oro, bensì l’aver frainteso il divenire storico: il suo funzionamento. Questo fraintendimento porta a una concezione assolutista del divenire della politica, in piena continuità con il pensiero platonico e cristiano: lo Stato deve quindi raggiungere un grado di perfezione da cui non si può più muovere, come se ogni cosa fosse ben calibrata e immutabile. Una concezione di questo tipo, nel tempo della liquidità, risulta alquanto anacronistica.

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O forse la critica che si può svolgere a Salvini è: davvero si vuole rafforzare la cultura e le tradizioni di un paese in questo modo e non rafforzando i programmi scolastici? Beh, forse non siamo davanti a un genio della politica.

di Mattia Marasti 

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