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«Ogni cosa è illuminata» (film): la leggerezza di un dramma

Il viaggio di tre persone diverse tra loro alla scoperta di un pezzo di storia e della Shoah, tema triste ma che non lascia spazio all'angoscia, perché raccontato attraverso gli occhi di una commedia.

7 minuti di lettura

Ogni cosa è illuminata, opera prima risalente al 2005 del regista statunitense Isaac Liev Schreiber, è, di fatto, un film sull’Olocausto. Portando sulla pellicola un’altra opera prima, l’omonimo libro di Jonathan Safran Foer, il regista racconta il viaggio del giovane Jonatan (Elijah Wood), alter ego dell’autore del romanzo, dagli Stati Uniti all’Ucraina sulle tracce della memoria del nonno, ebreo sfuggito a un rastrellamento nazista ed emigrato nel nuovo mondo.

A “traghettare” il giovane Jonathan per i campi di girasoli dell’Ucraina c’è Alexander “Alex” Perchov (Eugene Hützfrontman della band gipsy punk Gogol Bordello), che a bordo di una scassata utilitaria azzurro sbiadita guida, insieme al nonno antisemita e fintamente cieco e ad un cane guida iperaggressivo e caratteriale, i ricchi ebrei che intendono mettere insieme le fila dei destini delle loro famiglie, devastate dalla furia nazista.

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Quella che potrebbe però sembrare una pura e semplice ricerca delle proprie origini, un tentativo quasi maniacale di mettere ordine nella propria vita, in realtà sottende una riflessione niente affatto scontata sulla memoria e sul valore del passato. All’inizio, i ruoli sembrano essere chiari: da un lato, il nonno ed Alex, che sembrano solo sfregarsi le mani all’arrivo dell’ennesimo ebreo ricco da spolpare, accolto comicamente in stazione da una piccola orchestra (i Gogol Bordello, appunto), e che paiono sostenere che «il passato è passato e come tutto quello che non è di ora dovrebbe rimanere sepolto al fianco dei nostri ricordi»; dall’altro, Jonathan, che per paura di dimenticare colleziona maniacalmente oggetti, tra i quali ne emergono due: una fotografia, «Io e Augustine», presa dal nonno, e un gioiello di ambra con un insetto, acquisito dalla nonna.

In realtà, questi ruoli così stigmatizzati vanno svanendo abbastanza rapidamente e il viaggio dei tre protagonisti si rivela sin da subito più complicato del previsto; anzitutto per un motivo pratico, dal momento che il paese verso cui sono diretti sembra non esistere più: Trochenbrod, infatti, lo shtetl, il villaggio di ebrei che aveva dato i natali al nonno di Jonathan, sembra essere scomparso dalla faccia della terra. Quasi senza accorgersene i protagonisti e lo spettatore passano dalla dimensione della ricerca “privata” alla dimensione della ricerca storica. A portare alla luce la verità nel film Ogni cosa è illuminata è la sorella di Augustine, anziana che vive in una casetta di legno in mezzo ai girasoli, custode della memoria storica di Trochenbrod: proprio come Jonathan fa nei riguardi della sua vicenda privata, così la donna si rapporta alla storia custodendo gli effetti personali di tutte le vittime del massacro.

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Il risultato è una nuova consapevolezza per tutti e tre i personaggi: Jonathan viene a conoscenza della verità riguardo suo nonno, che aveva lasciato in patria Augustine in dolce attesa, partendo per gli Usa in cerca di fortuna, avendo con sé solo la sua collana di ambra; Alex riscopre e rimette in discussione le proprie origini (così “schiacciate” dal suo modo esasperato modo di vivere occidentale di cui racconta all’inizio del film), e per il nonno che apre gli occhi – di contro alla sua finta cecità – sull’avvenimento cardine della sua esistenza, che ha fatto sì che tutta la sua intera vita a seguire si svolgesse in una certa direzione.

Eppure, il film Ogni cosa è illuminata, che tratta il delicatissimo e drammaticissimo tema della Shoah, non lascia spazio all’angoscia e alla tristezza: si tratta infatti di una commediae pure una commedia ben fatta, che riesce a trattare l’argomento in modo leggero, senza per questo svalutarlo e svilirlo. Colori splendenti e linguaggio colorito – a sentir parlare inglese l’ucraino Alex, o forse sarebbe meglio dire il «russo di Odessa», scappa per forza un sorriso – fanno di questo film una vera e propria chicca che, partendo in modo molto definito e mettendo in evidenza i contrasti culturali tra un est Europa “americanizzato” e un’America molto europea per quanto riguarda la voglia di scavare nel passato, riesce ad addentrarsi nella storia universale, conducendo per mano lo spettatore e facendogli capire come la Memoria sia il collante tra ogni individuo, ciò che permette di costruire una propria identità consapevole.

Emblematica, in questo senso, è la chiusa: compiendo il medesimo gesto, l’uno negli Stati Uniti, l’altro in Ucraina, e Jonathan e Alex dimostrano quanto durante tutti i 95 minuti del film si cerca di trasmettere; ma lasciamo che a dirlo sia proprio Alex: «ho riflettuto molte volte sulla nostra rigida ricerca. Mi ha dimostrato che ogni cosa è illuminata dalla luce del passato. È sempre al nostro lato, all’interno, che guarda fuori. Come dici tu, alla rovescia. Jonfen, in questo modo, io sarò sempre al lato della tua vita. E tu sarai sempre al lato della mia».

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Giulia Malighetti

23 anni, laureata a pieni voti in Lettere Classiche alla Statale di Milano, amante della grecità antica e moderna spera, un giorno, di poter coronare il suo sogno e di vivere in terra ellenica.

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