Burbero, gesticolante, trasandato per scelta, vegetariano. La complessa personalità di Albert Kahn (1860-1940) non può essere delineata in pochi cenni. La sua vita è idealmente quella di uno sguardo senza limiti che sogna di salvare il mondo – prima ancora di conoscerlo – in tutte le sue parti e con un certo istinto di ubiquità.
Entrare nel nuovo anno e trascorrere i suoi primi giorni è un po’ come entrare nell’anticamera di un edificio mai esplorato. Le immagini che ci invaderanno saranno molte e alcuni importanti segni (e simboli) del passato sembreranno in qualche modo scomparire.
Mentre un’immagine sostituisce un’altra nel giro di pochi secondi, il lavoro analitico e incompiuto di Albert Kahn – banchiere, filantropo e pacifista francese – sembra voler tracciare i lineamenti colorati di un’epoca. Nel 1909 viaggia per lavoro con il suo autista e fotografo Alfred Dutertre; i due arrivano in Giappone e scattano decine di fotografie. Al ritorno in Europa, Kahn decide di ripartire per un secondo viaggio in Sud America con tappe in Uruguay, Argentina e Brasile, accompagnato da un altro fotografo, Augusto Leon. In quegli stessi anni il suo progetto si amplia. Tutti gli scatti vengono archiviati a Parigi nell’Archivio del Pianeta (Les Archives de la Planète): una raccolta di fotografie effettuate con la prima tecnica a colori, nata quasi contestualmente alla fotografia stessa, cioè il procedimento Autochrome inventato, prodotto e venduto dai fratelli Lumière.
Kahn si distingue per la sua apertura alle altre culture e alla globalizzazione. Nei suoi “prodotti culturali” è incluso il mondo intero, diviso in sezioni fotografiche e curato da più mani e sguardi. Nomina Jaen Brunhes come direttore del progetto e invia i suoi quattro fotografi in tutti i continenti per immortalare le particolarità, i gesti e i dettagli in un immenso ritratto a colori planetario. L’Archivio del pianeta diventa uno dei più grandi progetti fotografici mai realizzati per documentare edifici e culture di tutto il mondo. Frammenti in grado di raccontare tutte le sfumature delle città ai quattro angoli del pianeta.
Nella sua riservatezza, conservata gelosamente per tutta la vita, Kahn arriva quasi a nascondersi: fotograferà il mondo, ma di lui esistono solo una decina di ritratti rubati. Un umanista misantropo e un lavoratore instancabile, con le finestre dello studio aperte anche d’inverno.
Tutto nasce dalla volontà di cambiare il mondo e dall’idea che per farlo bastasse guardarlo attentamente e in ogni sua parte. Un’idea (non certo una presunzione) che inserita nel mondo crudo di quegli anni si è rivelata sfortunata e quasi utopistica. Il suo immenso sguardo penetra la crisi del ’29; la sua eredità morale rimane contro l’arroganza del nazismo e della Seconda Guerra Mondiale; la sua figura si staglia contro la crisi e oltre la bancarotta.
Kahn non è mai stato un rivoluzionario, sogna certo una società stabile e perfino tradizionalista (il suo mito è il Giappone), ma pacifica e senza frontiere; non auspica rivoluzioni bensì la riforma etica della classe dirigente. Lo strumento per fare questo lo trova nelle sue mani: una memoria più duratura, trasmissibile, uno strumento di conoscenza oggettivo e universale.
Nella sua incompiutezza il risultato è comunque incredibilmente magistrale. Ci troviamo di fronte alla bellezza di 72.000 lastre autochrome, che arrivano a noi – in maniera diretta e unica – da un ventennio passato, dal Canada all’Indocina, dal Marocco alla Mongolia. Arrivano anche fotografie di un’Europa mai vista, in modo completamente differente dalle immagini che di solito si associano al periodo storico delle guerre mondiali. Kahn e la sua squadra di fotografi – Fernand Cuville, Auguste Léon dallo sguardo d’antropologo, i rigorosi Frédéric Gadmer e Roger Dumas – scendono in Italia a più riprese.
Dal 1986 l’intero progetto viene conservato a Rue du Port 14, a Boulogne-Billancourt a Parigi, in completa sintonia con un’altra grande creazione di Kahn: Il Giardino del mondo (Les Jardins du Monde), creato dopo averne acquisito la proprietà nel 1893. Si tratta di un giardino unico in grado di comprendere una varietà di stili, da quello inglese a quello giapponese, per contemplare un progetto che vada oltre qualsiasi confine. Un’epicea del Colorado e un cedro dell’Atlante, alberi nati ai due estremi del pianeta, eppure tanto simili che non sapresti dire quale dei rami verde-azzurri che si sfiorano appartenga all’uno o all’altro. Anche del giardinaggio, come di tutta la sua vita, Kahn aveva fatto una metafora di fraternità universale.
Oggi, a settantasei anni dalla scomparsa del geniale sguardo di Albert Kahn, il suo sogno non si è ancora definitivamente interrotto. A confermarlo è l’addetto alla comunicazione del Museo Vladimir Pronier «è appena riemersa una cassa di lastre proveniente dal Sud America, di cui non sospettavamo l’esistenza».
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